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di Carla Canullo
Docente presso l'Università di Macerata
È difficile parlare dell'"opera di una vita", ché quando un'opera è incontrata, come l'opera di Matteo Ricucci, si ha piuttosto l'impressione di essere di fronte ad una "vita all'opera", ossia una vita che opera scrivendo, che si racconta, si narra inquieta nello scandaglio delle proprie radici. Radici essenziali per la vita e l'opera, che spiegano il rigoglio di una fronda colma, tuttavia, di un paradosso spaziale. Il paradosso di una radice locata altrove, fiorita e germogliata in un luogo altro, lontano. Una radice che paradossalmente lega Macerata, luogo amato in cui Ricucci ha esercitato, stimato, la sua professione medica e la sua passione di scrittore, e il Gargano, terra natia la cui assente presenza brilla in ogni pagina dei suoi romanzi e delle sue poesie. Paradossalmente, "contro" ogni logica, perché la distanza spaziale è incolmabile e incolmata. Ma anche, seguendo il duplice significato della preposizione "para", "oltre" ogni logica che chiude e imprigiona, "oltre" lo spazio e il tempo, "oltre" ciò che limita. "Oltre" che è l'assente presenza di una fanciullezza cresciuta altrove per portare frutto in altri luoghi; l'assente presenza che si annuncia nella memoria di luoghi, tempi, storie narrate per essere vissute sempre e di nuovo. Narrate per essere date a rivivere. Narrate per esprimere chi si è e da dove si è, per raccontare di luoghi amati, vissuti, ma anche di tempi e momenti del tempo che nessun altrove spazio-temporale ha mai fatto definitivamente lasciare.
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Una vita all'opera che si è cimentata in diversi generi, quali raccolte di poesie [Un'anima nella clessidra, Castelli di sabbia e Tra le dita del vento, Cavalcando le nuvole, I silenziosi passi della sera e Blutango], racconti [Animalia (il liocorno e gli altri), Lungo le mura, sotto il sole] e romanzi [Il rosso fiore della violenza, Giovanna I d'Angiò (La maschera e l'anima), La follia sull'altalena, Il leone d'Africa, L'orlo dell'ombra].
Chi è stato chiamato a valutare questi lavori ha tributato loro numerosi premi, conferendo a questi volumi quel meritato riconoscimento che, chi scrive, può semplicemente e soltanto limitarsi a ricordare, tributando il meritato valore alle pagine lette. E ancora, come la nottola di Minerva che canta a giorno ormai compiuto, chi scrive arriva soltanto après coup, senza alcuna pretesa di dire più di quanto persone competenti hanno già scritto e detto, ma senza perciò rinunciare al piacere di dialogare con l'autore.
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Dialogo che parte dalle raccolte di poesie: Un'anima nella clessidra, Castelli di sabbia e Tra le dita del vento. Poesie delicate, e delicato è l'aggettivo che Pascal usa per i principi che cogliamo con l'esprit de finesse, con quell'intuizione particolare (diversa dell'esprit de géometrie) indispensabile per le cose della vita. Questo esprit de finesse conferisce alle poesie di Ricucci la capacità di attingere la vita nella semplicità del quotidiano, di portare a manifestazione il quotidiano vivente. Non mette il lettore di fronte alla difficoltà di entrare nel mondo del poeta, ma lo guida a guardare con altri occhi il suo mondo. Così, la goccia sul ramo di pino della poesia Una goccia (nella raccolta Tra le dita del vento) fa guardare con occhi diversi l'ordinario e il semplice svolgersi del quotidiano; così l'afa di un caldo pomeriggio fa trasudare ogni piazza; il tormento della fede, nella raccolta Castelli di sabbia, parla dell'eterno (dis)equilibrio di amore e odio, cogliendo quel tormento di ogni cuore col quale si cimenta, nella stessa raccolta, il dramma narrato ne Il mio tormento, che da tormento personale si fa tormento di tutti, individuando in tal modo la condizione di ogni uomo, tesa tra peccato e sete di redenzione. Ancora, individuando in tal modo la finitezza umana lacerata da una lotta che è contesa continua con se stessi, che è inquietudine tormentata ma, anche, speranza.
Cercando un motivo di queste tre prime raccolte e della delicatezza con cui invitano a leggere l'umano esistere, lo si potrebbe indicare proprio nella goccia, tema ricorrente: perché la goccia è l'elemento più semplice, solito e usuale; semplice ma anche complesso, perché aggiunge, si dilata, si carica di sé divenendo altro, pioggia; ma anche scava, erode, consuma, rivelando la forza della sua apparente semplicità. Così, la goccia è duplice, complessa proprio nella sua semplicità come lo è l'esistenza umana, finitezza tesa tra due estremi, o due infiniti, come diceva ancora Pascal. Tra un infinitamente grande e un infinitamente piccolo, entrambi misteriosamente irriducibili.
La poesia, dunque, ha attraversato tutta l'opera di Ricucci, pervadendo la vita che in essa si fa opera di quel lirismo con cui l'autore ha letto non soltanto le pieghe più intime dell'esistenza ma anche della realtà; in Cavalcando le nuvole, ad essere cavalcati sono pensieri vari e sparsi, nuvole che passano nel cielo dell'esistenza, nevicate e frullii di ali, silenzio e vuoto di giorni che muoiono "con il sordo rumore di una goccia che scava la pietra", il muto dischiudersi al giorno di un fiore, la libertà crocefissa della bellezza imprigionata. Ma anche il dolore, la morte, il disagio. E poi, il lirismo della raccolta I silenziosi passi della sera e il canto della città che lo ha accolto, Macerata, colma del risuonare delle campane che scandiscono il tempo e i ritmi della vita e della morte. E, in questa raccolta, c'è quello che potrebbe essere chiamato un poema nel lirismo: Fiat lux? Un poema nel lirismo di Ricucci, nella sua capacità di "cantare", nella poesia, la vita e la sua origine, dove l'affermazione di biblica memoria è inquietata dal suo essere messa in questione.
Qui brilla l'assenza di ogni gloria, di ogni trionfo della luce incespicante all'avanzare delle tenebre e del nulla; brilla lo scatenarsi della lotta tra luce e ombra, tra essere e non essere; vi sono il giudizio di Pilato e la rivisitazione della Passio Christi di Caterina da Siena, rivisitazione carica della ventata di novità e libertà portata nella storia da ogni rivoluzione; c'è l'antica domanda che chiede - nel mescolarsi di nuovo e antico che si intrecciano nella storia, tessendola - "unde mala?". Colmo di domande, Fiat lux? reca nel titolo stesso - come accennato - il suo carattere questionante, la perplessità di un punto interrogativo che ripercorre a suo modo, domandando, la storia, intrecciando passato e presente con occhi colmi dell'incanto del tempo.
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Ché il tempo, nell'opera di Ricucci, incanta. Meraviglia, sbalordisce, stupisce e lo fa anche attraverso figure fantastiche, come quella del liocorno. Il tempo incanta perché l'eterno entra nel presente e il presente è letto nella luce della meraviglia che lo trapassa, conducendo la fantasia e il lirismo di Ricucci a questo reciproco contaminarsi delle estasi temporali. È il motivo di Animalia, racconti fantastici che narrano dell'oriente e presentano il tempo trafitto dall'eterna lotta di bene e male. Il protagonista che sogna il liocorno, animale che ha popolato le fantasie più delicate degli scrittori, accompagna nei sogni (profezie di realtà a venire) l'eroe Ulrich, novello Parsifal scelto per la missione nella quale il tempo umano è destinato ad essere trafitto da un tempo fatto sacro e divino dalla missione stessa: riportare il Sacro Graal in Terra Santa mantenendo la fedeltà alla promessa di castità e purezza che lo scopo richiede. È una variazione su un tema noto, questo di Ricucci, ricostruito, grazie al liocorno, attraverso immagini consegnate dalla letteratura e dalla pittura di altri tempi. Basti pensare ai meravigliosi arazzi della Dame à la licorne custoditi nel museo parigino di Cluny, dove sono rappresentati in allegoria i cinque sensi, ciascuno dei quali è vivificato dal liocorno. E anche in Ricucci il liocorno dà vita, in modo misterioso, perché è segno di una vita altra, resa a se stessa. Restituita a se stessa, dove restituzione e tradizione sono due altri (tra i numerosi) motivi che potrebbero essere scelti quali guida al dialogo con quest'opera.
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Ricucci, lo abbiamo detto, consegnandoci le sue poesie ci ha consegnato, restituito un modo diverso di vedere la semplicità dell'ordinario, del comune e quotidiano. Ma non è forse ciò che ogni poeta fa? Sì, per questo Ricucci è a pieno titolo poeta. Egli, inoltre, riconsegna anche la tradizione, popolata di miti, leggende e figure storiche care alla memoria popolare. Lo fa in modo esemplare nel libro dedicato a Giovanna d'Angiò, il cui romanzo reca il sottotitolo La maschera e l'anima. La maschera viene imposta a Giovanna fatta prigioniera per ordine dell'usurpatore del trono Carlo di Durazzo. Ma, più della storia, della regina discussa e della sua dubbia moralità è messa a nudo l'anima, quell'anima che ne ha fatto una delle figure più amate della terra del Gargano. Anima in dialogo con santi e figure altamente spirituali. Anima che riscoprendosi in tale intimo e mistico dialogo si scopre più vera del male del quale è accusata, del vizio che le è attribuito, di ogni sospetto che su di lei grava. Giovanna d'Angiò è narrata negli ultimi istanti della sua vita e restituita alla sua purezza dall'Arcangelo Michele e da Caterina da Siena.
Il dramma tra bene e male, la tensione dell'esistere è ben individuata da queste due figure che esprimono, ci sembra, l'intima e travagliata religiosità di Ricucci: una religiosità che non si svolge nelle istituzioni ma che risponde al richiamo di un fuoco che purifica: è forse un caso che l'immagine del fuoco accompagni tanto la mistica senese quanto l'Arcangelo che protegge il Gargano? Dunque, una religiosità come purezza e purificazione, che l'autore restituisce ad una figura cara alla memoria della sua terra. La stessa religiosità che individua nel già citato Ulrich "il puro", il quale riesce a compiere la missione che gli è affidata senza che la religiosità perda l'impeto della lotta che purifica; religiosità che, anzi, gli dà volto e nome, come accadde a Giacobbe nella lotta con l'angelo presso il guado Iabbok. Religiosità del fuoco, della lotta e del rispetto, dell'amore narrato con delicatezza: anche questo, dunque, viene a manifestazione nell'opera di Ricucci.
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Viene a manifestazione, in una sorta di restituzione, questa religiosità insieme al rispetto e all'amore per la sua tradizione e la sua terra. Tradizione popolata dalla morte mai intesa come fine ma sempre come inizio nuovo: è il caso della morte di Giovanna d'Angiò, la quale genera un movimento spirituale di purificazione e rinnovamento della Chiesa sulla scia dell'insegnamento di Caterina, movimento cui partecipano gli ultimi, i poveri di spirito, i semplici che sanno cogliere la verità delle cose, al di là della loro maschera. Ma è anche il tema che chiude il romanzo Il rosso fiore della violenza. Ricucci vi narra un tema che ha spezzato lo status quo italiano, imponendosi nella violenza delle Brigate Rosse, le cui vicende sono narrate attraverso la storia della giovane protagonista, Angela Barilatti. L'autore non cede alla tentazione di una facile e semplice condanna: egli, piuttosto, cerca le ragioni di una rivolta scoppiata là dove non doveva scoppiare, in situazioni dove in apparenza non c'era disagio sociale. Senza naturalmente giustificare quegli anni, Ricucci mette in luce il malessere di generazioni che hanno avuto "tutto" senza ricevere il "necessario", ossia il gusto della vita che solo una tradizione viva può tramandare. Così, là dove la tradizione non è vita ma abitudine e agio, dove non è trasmissione ma è fatto accomodante accettato per il timore di perdere privilegi ormai conquistati, là fioriscono i fiori rossi, insanguinati, della violenza. Questa vicenda italiana è letta attraverso il racconto delle tragedie che ha portato con sé, attraverso la storia di Mario, giovane brigadiere del Gargano partito per non dover soccombere ad una situazione di miseria e povertà e tragicamente condannato a morte non dal "nemico politico" ma dalla miopia di governanti che non hanno saputo cogliere il disagio che stava montando e che decide di contrapporre alla violenza del terrorismo giovani carabinieri mandati, di fatto, a morire.
Ma le vittime di entrambe le parti - delle forze dell'ordine e dei terroristi - rimangono, nonostante la morte, in vita: una vita nella memoria di chi custodisce il loro sacrificio e lo scandalo politico e sociale che lo ha generato. Questa memoria rivive nelle parole del padre di Angela, la già citata protagonista del romanzo, militante brigatista condannata a morte dalla cellula terroristica cui apparteneva perché sorpresa a telefonare nel giorno fissato per l'azione terroristica. Telefona al padre, mostrando di essere capace di rinunciare alla vita agiata ma non all'affetto. Un affetto mancante. E il padre comprende che cosa sia stato e abbia significato l'abbandono, per il successo nella professione, della famiglia e dell'affetto da donare ai giovani; mancanza cui questi hanno sopperito rifugiandosi nella violenza. La morte, allora, gli restituisce la memoria della figlia, la consapevolezza del suo dolore per l'amore mancato ma anche, paradossalmente, la sua stessa vita, facendogli ripercorrere ciò che anch'egli ha perduto consacrandosi soltanto al successo e ignorando la realtà che viveva attorno a lui.
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Capacità della morte di restituire ad una nuova vita nella memoria che è presente in ogni libro di Ricucci: il male e la fine, la morte non dicono l'ultima parola ma la memoria degli amati viene restituita dalla e nella vita stessa, quasi che ad essere narrata sia una Vita con la iniziale maiuscola, più forte e tenace della morte. Leggiamo in questo senso il romanzo Il Leone d'Africa, dove è narrata la vicenda di Filippo M., podestà fascista, che sarà piegato dalla vita dopo essere stato accecato dalla guerra con ardore ed eroismo combattuta. Romanzo dove la vita si mostra ambivalente, come la goccia all'inizio evocata. Infatti la sua famiglia, originaria della Roccaccia (e dunque delle amate terre pugliesi), dopo aver abbandonato la propria terra, nella figura della figlia Rachele la riprenderà, quasi ad epurarla e liberarla dal male che la sua gens aveva causato a se stessa e agli altri per generazioni, in un miscuglio di affetti, di bene e male che appartengono alla terra ma che sono sempre, alla fine, ricompresi, restituiti e liberati nella Vita.
Lo stesso motivo in un altro romanzo, La follia sull'altalena, dove è denunciata la difficile situazione dei malati di mente precipitata in seguito alla legge 180, soprattutto nel sud dell'Italia, dove più che altrove sono mancati gli interventi dello Stato. Vi leggiamo la vicenda di un pazzo, il Ginetta, ucciso da giovani del paese, il tutto narrato attraverso gli occhi di Walter Stamura, giornalista milanese che scendendo nel Gargano scopre un mondo che - pur appartenendo alla sua nazione - ignorava. E lo scopre grazie a Lisetta, la passione per la quale viene quasi, nel romanzo, consegnata ad una restituzione futura. Anche in quest'opera s'impone l'ambivalenza delle situazioni, l'attenzione e la cura dei particolari della vicenda, la ritrosia di fronte ad ogni giudizio che non tenga conto della realtà nella totalità dei suoi fattori: ecco allora che la follia è una verità a rovescio, una verità rovesciata, paradossale e ambivalente come lo è la vita. Chi è veramente folle, il Ginetta che con il suo atteggiamento provocatorio costringe i giovani del paese ad ucciderlo o questi stessi giovani che attendono il buon momento, il momento opportuno in cui dar voce ed espressione ad una violenza che affonda le sue radici in una terra e in una memoria che, infinitamente, li supera? Una violenza atavica e arcaica, radicata in un tempo e in uno spazio ai quali si appartiene al di qua di ogni consapevolezza? Un'appartenenza inconsapevole che, nell'opera di Ricucci, si fa motif.
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La terra, la tradizione, l'Arcangelo Michele: così, infatti, il Nostro ci fa conoscere il Gargano cui egli appartiene. E come la Montagna Sainte Victoire era il motif del pittore Cézanne, così il Gargano è motif di Ricucci, che ne racconta sempre e di nuovo i volti e le vicende. L'amore per questa terra vibra in tutti i suoi numerosi scritti ed è l'anima di quello che non esitiamo a chiamare la sua opera principale, L'orlo dell'ombra. Il romanzo di una vita, il racconto tenero di affetti, della prima guerra mondiale, di passioni incestuose che nascono nell'abbandono a quel primordiale che continua con prepotenza ad imporsi là dove non vi è legge che gli si opponga, compensato soltanto dall'eccesso opposto, la tenerezza dell'amore, della passione che fiorisce nei luoghi più impensati. È il racconto di Giovanni, vittima del Gargano e dei suoi turbamenti, che grazie all'amore di Gisella rinasce a nuova vita, dopo essere partito per una guerra che anziché destinarlo alla morte lo destina - nella lontananza - alla riscoperta della sua terra, quasi narrando del medesimo paradosso spaziale che sembra attraversare la vita di Ricucci, ricordato all'inizio di queste pagine.
L'orlo dell'ombra sta ad indicare ciò che divide ma, anche, unisce: una linea d'ombra che impercettibilmente distingue e separa, che si muove così come lo fa ogni ombra e, soprattutto, come fa la vita. Ché anche questo ci consegna e insegna l'opera del Nostro: l'intimo muoversi della vita per rigenerarsi e esserle restituiti dalla e nella memoria. Una memoria che non è soltanto ricordo del passato ma, piuttosto, profondità del presente. Profondità che vive in rapporti e amicizie quali quella che lega Ricucci al grande musicista Hector Hulisses Passerella (che chi scrive ha avuto la fortuna di avere come maestro di armonia).
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Da questa amicizia, vissuta prima ancora che narrata, è nata la raccolta di poesie Blutango. Il tango è la musica dell'anima carnale, la quale viene a manifestazione nel corpo che lo danza. È la musica che accompagna l'essere prigioniero tra le mura di una città accogliente e straniera, suonata dal dolce pianto di un bandoneon. Così, "una radio piange di solitudine e, nel silenzio di una casa, le struggenti note di un tango rioplatense spande": come leggere questo pianto se non come lo struggimento di un'anima che non è mai paga di ciò che ha ma che cerca "altro", ciò da cui viene e cui appartiene già da sempre, che cerca il fuoco dell'amicizia che unisce il poeta/scrittore al musicista, che soltanto l'arte condivisa e con-vissuta porta ad espressione?
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Infine, la vocazione. Matteo Ricucci, lo si è detto, è medico, e per tanti anni ha esercitato la sua professione a Macerata vivendo a Macerata e nella sua terra, quel Gargano tanto narrato, liricamente, musicalmente. Che cosa vuol dire amare la propria città, la propria terra? Forse, significa saperla vivere nelle sue luci e ombre, saperne attraversare le passioni, saperle strappare il cuore: e questo fa Ricucci, raccontandola. Può, allora, un medico essere "scrittore" e "poeta"? Certamente, anche questo lo si detto, egli lo è, perché è capace di rendere sempre presente il suo mondo, di restituire nuova vita alle figure che ne hanno popolato la storia, sfidando quel Cronos che solo ad un primo sguardo brucia e divora l'uomo, sfidandolo con il raccontare le passioni, l'amore, l'amicizia, la storia. Se scrittore è colui che propone al lettore un nuovo mondo, Ricucci è scrittore che restituisce ai suoi lettori e ai suoi amici la realtà purificata nel crogiolo delle passioni. Purificata nel passaggio attraverso quel misterioso complesso mondo di affetti, personali e sociali, che chiamiamo Vita.
A lui il merito di averla saputa cogliere e narrare, a noi il privilegio di guardare la nostra vita, la nostra città e il nostro tempo con altro sguardo. Con lo sguardo di chi non si è sottratto alla passione del racconto delle terre amate. Con lo sguardo di chi, queste terre, le accoglie in sé, amandone la sfida.
Carla Canullo